Avventura
Elogio della Fuga
Negli ambienti perbene la parola fuga è considerata, in genere, una brutta parola. Essa evoca il comportamento di chi abbandona le propria responsabilità (“la poveretta è rimasta sola e abbandonata. Il marito, quel manigoldo, è fuggito con un’altra …”), di chi non riesce ad integrarsi nel suo ambiente (“non fuggire dalla realtà!”) e ovviamente di chi commette gravi scorrettezze (“è fuggito con la cassa”). Giustamente viene quindi pronunciata con una smorfia di disgusto sulle labbra. Ma come accade tante volte nella vita si tratta soprattutto di quale paio di occhiali ci siamo infilati per osservare la realtà. Converrete, infatti, che se voi foste dei condannati a morte o all’ergastolo la parola fuga avrebbe ben altro e più desiderabile attrattiva per le vostre orecchie. Ecco che le parole fuga, evasione diventano sinonimo di luce, di vita, di un meraviglioso ciao, ciao a carcerieri, secondini e prigioni varie.
La fuga verso la libertà ha un sapore straordinario al quale non si può restare insensibili: chi ha visto il film Papillon, la famosa storia dei tentativi di evasioni di Henri Charriere, ladro di professione ma innocente, spedito in una colonia penale sull’isola del Diavolo (il nome non necessita di ulteriori spiegazioni) non può aver fatto il tifo per le guardie anche se l’eroe (Papillon, appunto) è un criminale.
Ancor più straordinario (e obbligatorio da vedere tutti insieme in Clan) il film la Grande Fuga sempre con il leggendario Steve McQueen tra gli interpreti. La storia (vera) di 76 prigionieri di varie nazionalità che unendo audacia, ingegnosità e disperazione fuggirono nel marzo del 1944 da un campo di prigionia tedesco. Una fuga che si perde in mille rivoli, tutti insieme a formare un inno al coraggio e alla libertà.
Il problema è che qualche volte le prigioni da cui diventa più difficile evadere sono proprio quelle senza sbarre, fatte di quotidianità sonnolente, di cattive abitudini, di rassegnazione al peggio, di disistima nei nostri stessi confronti, di scoraggiamento.Da queste prigioni noi abbiamo non solo il diritto ma il dovere morale di evadere. Sì, in questi casi la fuga è necessaria. Apriamo la porta di casa. Nello zaino giusto l’essenziale. E via. Lontano. Verso i prati, i grandi boschi. I volti nuovi di persone mai conosciute. Il sorriso di una ragazza che non conosciamo. A dissetarci ad una fontana di un vecchio villaggio. Aria. Polmoni pieni di aria. Ossigeno. Per la nostra testa e il nostro cuore. Via dal buio, verso la luce.
Per chi ha voglia di approfondire:
Film per farci venire la voglia di evadere
Robert Bresson: Un condannato a morte è fuggito (1956)
Don Siegel: Fuga da Alcatraz (1979)
John Huston: Fuga per la Vittoria (1981)
Ridley Scott: Thelma & Louise (1991)
Alan Parker: Fuga di mezzanotte (1979)
Frank Darabont: Le ali della Libertà (1994)
Libri da leggere se volete tentare l’evasione:
Frederic Sjoberg, L’arte della fuga, Iperborea, 2017
Tra i classici:
David Henry Thoreau, Walden, ovvero la vita nei boschi, Feltrinelli
Giacomo Casanova, Storia della mia fuga dai Piombi, Newton
Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo, BUR
Avete altri film o libri da suggerire? avete voglia di scrivere dei commenti o delle recensioni? Avete delle canzoni, delle poesie, dei racconti che volete condividere? Fatecelo sapere!
Ulisse: (se) questo è un uomo
Primo Levi è un famoso scrittore. E’ stato anche un chimico e durante la guerra un partigiano. Catturato è stato portato ad Auschwitz. Ha raccontato in “Se questo è un uomo” la lotta e la disperazione dei deportati, di coloro (molti) che furono sommersi e di coloro (pochi) che furono salvati. Di coloro che per tentare di sopravvivere non esitarono a fare cose abbiette e di coloro che, anche in quelle circostanze tragiche, seppero dare un esempio di dignità. In una delle sue pagine più intense lo troviamo a discutere con Jean Samuel, un giovane alsaziano, insieme al quale porta il rancio agli altri prigionieri. Il lager è un inferno. Ogni giorno centinaia (talvolta migliaia) di internati vengono avviati alle camere a gas oppure, secondo il capriccio dei kapò o delle SS o di ordini apparentemente burocratici, vengono torturati, fatti oggetto di sperimentazioni mediche… Jean è giovane, intelligente, forse vuole sapere della vita. Dove nasce il bisogno di raccontargli di Dante? di Virgilio che seppe guidarlo nei gironi dell’inferno? Forse anche lui si sente come Virgilio, Auschwitz è l’inferno? Forzando la memoria gli tornano alle labbra alcuni versi del canto ventiseiesimo, quello che narra dell’enigmatico incontro con Ulisse. Il canto è noto: Virgilio chiede a Ulisse in che modo avesse trovato la morte. Ulisse narra di essere giunto alla gola dove Ercole fissò le sue colonne. Su quel confine “che un dio fissò all’ambizione o all’audacia”, radunati i pochi uomini che gli sono rimasti, li incita ad avventurarsi per il mare aperto e sconosciuto degli antipodi che mai alcuno prima di loro aveva percorso. E’ il punto cruciale. Primo Levi si accorge che Jean lo segue affascinato, forse ha capito. Gli spiega alcuni versi importantissimi:
“ Ecco attento, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza
Fatti non foste a vivere come bruti
Ma per seguire virtute e conoscenza
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono (…) forse nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso (Jean) ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio e noi in specie, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle”.
Dal luogo più orrido e abbietto che il ventesimo secolo abbia saputo inventare, si ode ancora oggi, a distanza di tanti anni, una voce che ci ricorda la nostra dignità di uomini e l’alto destino a cui siamo chiamati. Il canto di Ulisse riguarda Primo Levi, riguarda il suo compagno di prigionia ma riguarda anche tutti noi, me e voi che leggete. Bisogna che anche noi apriamo gli orecchi e la mente. Ricordiamo le nostre origini! non siamo nati per vivere come bruti, (come delle bestie, come prigionieri, come gente senza dignità e senza coraggio); siamo nati per cercare la virtù e la conoscenza, per vivere dando significato alla nostra esistenza e mettendo cura nel modo con il quale la conduciamo.
Dal luogo di prigionia per antonomasia, il luogo pensato e costruito per distruggere l’umanità nell’uomo (quella dei prigionieri come quella dei loro carnefici) il canto di Ulisse suona come il canto di un uomo libero, come il canto di tutti gli uomini liberi. Il canto di coloro che non si rassegnano a vivere nell’inferno quotidiano, di coloro che pensano che le cose possono essere diverse e migliori, che non hanno paura di battersi per realizzarle. E Ulisse ci esorta al viaggio, ad attraversare le colonne d’Ercole, ad osare anche là dove sembra che nessun altro abbia mai osato, ad andare verso il mare aperto.
Non possiamo che partire da qui: da Auschwitz, che non è solo il luogo dove sono avvenute atrocità sconvolgenti, ma è anche il simbolo di tutti gli altri luoghi dove l’uomo è stato (e viene) torturato, umiliato, annichilito. E partire da Ulisse, sogno di due prigionieri certo, ma anche simbolo di chi vuole andare oltre, di chi non cessa mai di porsi domande, di chi vuol conoscere, provare, scoprire il mondo, gli uomini e anche se stesso.
La lotta tra Auschwitz e Ulisse, tra la barbarie e l’umanità la ritroviamo ancora oggi, nelle cronache dei quotidiani, nei luoghi dove ci impegniamo, a volte anche dentro di noi. E’ necessario partire, mettersi in cammino, prendere il largo, gonfiare le vele di un vento che ci sospinga verso nuove frontiere.
Ecco perché Ulisse è il simbolo, il modello, il prototipo dei rover e delle scolte. Ce lo indica un povero uomo, con la casacca a strisce e un numero tatuato sul braccio mentre porta il rancio ai suoi compagni. Ulisse è la possibilità di vivere con dei criteri diversi. Il roverismo scoltismo è una strada di libertà. Una strada rischiosa, ardua, non necessariamente la strada dei vincenti ma una strada che merita di essere percorsa da chi non si rassegna a essere parte di un gregge (o di un branco di maiali, per citare Circe e i suoi incantesimi).