Diritti umani
In morte di Martin Luther King
Poche ore dopo la notizia dell’assassinio di Martin Luther Kingil 4 aprile 1963 una grande folla si era radunata a Indianapolis. Un grande senso di rabbia e di frustrazione si era diffuso e la polizia informò Robert Kennedy di non essere in grado di proteggerlo qualora fossero esplose proteste e tumulti, cosa che appariva la più probabile. Il discorso, improvvisato, è considerato una delle più grandi testimonianze sul tema della pace.
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“Anche nel sonno
il dolore che non dimentica
cade goccia dopo goccia sul nostro cuore,
finché nella nostra stessa disperazione,
senza che lo vogliamo,
ci perviene la saggezza,
attraverso la maestosa grazia di Dio.
Eschilo
I have a dream
Oggi sono felice di essere con voi in quella che nella storia sarà ricordata come la più grande manifestazione per la libertà nella storia del nostro Paese.
Un secolo fa, un grande americano, che oggi getta su di noi la sua ombra simbolica, firmò il Proclama dell’emancipazione.
Si trattava di una legge epocale, che accese un grande faro di speranza per milioni di schiavi neri, marchiati dal fuoco di una bruciante ingiustizia. Il proclama giunse come un’aurora di gioia, che metteva fine alla lunga notte della loro cattività.
Ma oggi, e sono passati cento anni, i neri non sono ancora liberi.
Sono passati cento anni, e la vita dei neri è ancora paralizzata dalle pastoie della segregazione e dalle catene della discriminazione.
Sono passati cento anni, e i neri vivono in un’isola solitaria di povertà, in mezzo a un immenso oceano di benessere materiale. Sono passati cento anni, e i neri ancora languiscono negli angoli della società americana, si ritrovano esuli nella propria terra. Quindi oggi siamo venuti qui per tratteggiare a tinte forti una situazione vergognosa. In un certo senso, siamo venuti nella capitale del nostro paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della nostra repubblica hanno scritto le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione d’indipendenza, hanno firmato un “pagherò” di cui ciascun americano era destinato a ereditare la titolarità. Il “pagherò” conteneva la promessa che a tutti gli uomini, sì, ai neri come ai bianchi, sarebbero stati garantiti questi diritti inalienabili: “Vita, libertà e ricerca della felicità”.
Oggi appare evidente che per quanto riguarda i cittadini americani di colore, l’America ha mancato di onorare il suo impegno debitorio. Invece di adempiere a questo sacro dovere, l’America ha dato al popolo nero un assegno a vuoto, un assegno che é tornato indietro, con la scritta “copertura insufficiente”.
Ma noi ci rifiutiamo di credere che la banca della giustizia sia in fallimento.
Ci rifiutiamo di credere che nei grandi caveau di opportunità di questo paese non vi siano fondi sufficienti. E quindi siamo venuti a incassarlo, questo assegno, l’assegno che offre, a chi le richiede, la ricchezza della libertà e la garanzia della giustizia. Siamo venuti in questo luogo consacrato anche per ricordare all’America l’infuocata urgenza dell’oggi. Quest’ora non è fatta per abbandonarsi al lusso di prendersela calma o di assumere la droga tranquillante del gradualismo.
Adesso è il momento di tradurre in realtà le promesse della democrazia.
Adesso è il momento di risollevarci dalla valle buia e desolata della segregazione fino al sentiero soleggiato della giustizia razziale. Adesso è il momento di sollevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale per collocarla sulla roccia compatta della fraternità. Adesso è il momento di tradurre la giustizia in una realtà per tutti i figli di Dio.
Se la nazione non cogliesse l’urgenza del presente, le conseguenze sarebbero funeste.
L’afosa estate della legittima insoddisfazione dei negri non finirà finché non saremo entrati nel frizzante autunno della libertà e dell’uguaglianza. Il 1963 non è una fine, è un principio. Se la nazione tornerà all’ordinaria amministrazione come se niente fosse accaduto, chi sperava che i neri avessero solo bisogno di sfogarsi un pò e poi se ne sarebbero rimasti tranquilli rischia di avere una brutta sorpresa. In America non ci sarà né riposo né pace finché i neri non vedranno garantiti i loro diritti di cittadinanza. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione finché non spunterà il giorno luminoso della giustizia. Ma c’è qualcosa che devo dire al mio popolo, fermo su una soglia rischiosa, alle porte del palazzo della giustizia: durante il processo che ci porterà a ottenere il posto che ci spetta di diritto, non dobbiamo commettere torti. Non cerchiamo di placare la sete di libertà bevendo alla coppa del rancore e dell’odio. Dobbiamo sempre condurre la nostra lotta su un piano elevato di dignità e disciplina. Non dobbiamo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica.
Sempre, e ancora e ancora, dobbiamo innalzarci fino alle vette maestose in cui la forza fisica s’incontra con la forza dell’anima. Il nuovo e meraviglioso clima di combattività di cui oggi è impregnata l’intera comunità nera non deve indurci a diffidare di tutti i bianchi, perché molti nostri fratelli bianchi, come attesta oggi la loro presenza qui, hanno capito che il loro destino è legato al nostro.
Hanno capito che la loro libertà si lega con un nodo inestricabile alla nostra. Non possiamo camminare da soli. E mentre camminiamo, dobbiamo impegnarci con un giuramento: di proseguire sempre avanti. Non possiamo voltarci indietro. C’è chi domanda ai seguaci dei diritti civili: “Quando sarete soddisfatti?”. Non potremo mai essere soddisfatti, finché i neri continueranno a subire gli indescrivibili orrori della brutalità poliziesca. Non potremo mai essere soddisfatti, finché non riusciremo a trovare alloggio nei motel delle autostrade e negli alberghi delle città, per dare riposo al nostro corpo affaticato dal viaggio.
Non potremo mai essere soddisfatti, finché tutta la facoltà di movimento dei neri resterà limitata alla possibilità di trasferirsi da un piccolo ghetto a uno più grande. Non potremo mai essere soddisfatti, finché i nostri figli continueranno a essere spogliati dell’identità e derubati della dignità dai cartelli su cui sta scritto “Riservato ai bianchi”. Non potremo mai essere soddisfatti, finché i neri del Mississippi non potranno votare e i neri di New York crederanno di non avere niente per cui votare.
No, no, non siamo soddisfatti e non saremo mai soddisfatti, finché la giustizia non scorrerà come l’acqua, e la rettitudine come un fiume in piena.
Io non dimentico che alcuni fra voi sono venuti qui dopo grandi prove e tribolazioni. Alcuni di voi hanno lasciato da poco anguste celle di prigione. Alcuni di voi sono venuti da zone dove ricercando la libertà sono stati colpiti dalle tempeste della persecuzione e travolti dai venti della brutalità poliziesca. Siete i reduci della sofferenza creativa. Continuate il vostro lavoro, nella fede che la sofferenza immeritata ha per frutto la redenzione. Tornate nel Mississippi, tornate nell’Alabama, tornate nella Carolina del Sud, tornate in Georgia, tornate in Louisiana, tornate alle baraccopoli e ai ghetti delle nostre città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare e cambierà. Non indugiamo nella valle della disperazione.
Oggi, amici miei, vi dico: anche se dobbiamo affrontare le difficoltà di oggi e di domani, io continuo ad avere un sogno.
E un sogno che ha radici profonde nel sogno americano.
Ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgerà e vivrà il significato vero del suo credo: noi riteniamo queste verità evidenti di per sé, che tutti gli uomini sono creati uguali. Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità.
Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e di giustizia. Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalità. Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno, laggiù nell’Alabama, dove i razzisti sono più che mai accaniti, dove il governatore non parla d’altro che di potere di compromesso interlocutorio e di nullification delle leggi federali, un giorno, proprio là nell’Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche, come fratelli e sorelle.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme.
Questa è la nostra speranza.
Questa è la fede che porterò con me tornando nel Sud. Con questa fede potremo cavare dalla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede potremo trasformare le stridenti discordanze della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fraternità.
Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in prigione insieme, schierarci insieme per la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi.
Quel giorno verrà, quel giorno verrà quando tutti i figli di Dio potranno cantare con un significato nuovo:
“Patria mia, é di te, dolce terra di libertà, é di te che io canto. Terra dove sono morti i miei padri, terra dell’orgoglio dei Pellegrini, da ogni vetta riecheggi libertà”.
E se l’America vuol essere una grande nazione, bisogna che questo diventi vero. E dunque, che la libertà riecheggi dalle straordinarie colline del New Hampshire. Che la libertà riecheggi dalle possenti montagne di New York.
Che la libertà riecheggi dagli elevati Allegheny della Pennsylvania.
Che la libertà riecheggi dalle innevate Montagne Rocciose del Colorado.
Che la libertà riecheggi dai pendii sinuosi della California. Ma non soltanto.
Che la libertà riecheggi dalla Stone Mountain della Georgia.
Che la libertà riecheggi dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Che la libertà riecheggi da ogni collina e da ogni formicaio del Mississippi, da ogni vetta, che riecheggi la libertà.
E quando questo avverrà, quando faremo riecheggiare la libertà, quando la lasceremo riecheggiare da ogni villaggio e da ogni Paese, da ogni stato e da ogni città, saremo riusciti ad avvicinare quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici, potranno prendersi per mano e cantare le parole dell’antico inno: “Liberi finalmente, liberi finalmente. Grazie a Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente”.
Martin Luther King
I have a Dream è un discorso pubblico pronunciato durante la March on Washington for Jobs and Freedom al Lincoln Memorial il 28 agosto 1963. Un discorso celeberrimo in occasione dei cento dal Proclama di emancipazione dei neri con il quale Abramo Lincoln aveva abolito la schiavitù negli Stati Uniti.
Sono trascorsi altri 50 e passa anni ma non c’è ancora parità di diritti, né piena libertà, né piena uguaglianza, né finer dei pregiudizi e del razzismo e le parole di Martin Luther King non hanno ancora perso nulla della loro straordinaria attualità e forza.
Ulisse: (se) questo è un uomo
Primo Levi è un famoso scrittore. E’ stato anche un chimico e durante la guerra un partigiano. Catturato è stato portato ad Auschwitz. Ha raccontato in “Se questo è un uomo” la lotta e la disperazione dei deportati, di coloro (molti) che furono sommersi e di coloro (pochi) che furono salvati. Di coloro che per tentare di sopravvivere non esitarono a fare cose abbiette e di coloro che, anche in quelle circostanze tragiche, seppero dare un esempio di dignità. In una delle sue pagine più intense lo troviamo a discutere con Jean Samuel, un giovane alsaziano, insieme al quale porta il rancio agli altri prigionieri. Il lager è un inferno. Ogni giorno centinaia (talvolta migliaia) di internati vengono avviati alle camere a gas oppure, secondo il capriccio dei kapò o delle SS o di ordini apparentemente burocratici, vengono torturati, fatti oggetto di sperimentazioni mediche… Jean è giovane, intelligente, forse vuole sapere della vita. Dove nasce il bisogno di raccontargli di Dante? di Virgilio che seppe guidarlo nei gironi dell’inferno? Forse anche lui si sente come Virgilio, Auschwitz è l’inferno? Forzando la memoria gli tornano alle labbra alcuni versi del canto ventiseiesimo, quello che narra dell’enigmatico incontro con Ulisse. Il canto è noto: Virgilio chiede a Ulisse in che modo avesse trovato la morte. Ulisse narra di essere giunto alla gola dove Ercole fissò le sue colonne. Su quel confine “che un dio fissò all’ambizione o all’audacia”, radunati i pochi uomini che gli sono rimasti, li incita ad avventurarsi per il mare aperto e sconosciuto degli antipodi che mai alcuno prima di loro aveva percorso. E’ il punto cruciale. Primo Levi si accorge che Jean lo segue affascinato, forse ha capito. Gli spiega alcuni versi importantissimi:
“ Ecco attento, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza
Fatti non foste a vivere come bruti
Ma per seguire virtute e conoscenza
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono (…) forse nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso (Jean) ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio e noi in specie, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle”.
Dal luogo più orrido e abbietto che il ventesimo secolo abbia saputo inventare, si ode ancora oggi, a distanza di tanti anni, una voce che ci ricorda la nostra dignità di uomini e l’alto destino a cui siamo chiamati. Il canto di Ulisse riguarda Primo Levi, riguarda il suo compagno di prigionia ma riguarda anche tutti noi, me e voi che leggete. Bisogna che anche noi apriamo gli orecchi e la mente. Ricordiamo le nostre origini! non siamo nati per vivere come bruti, (come delle bestie, come prigionieri, come gente senza dignità e senza coraggio); siamo nati per cercare la virtù e la conoscenza, per vivere dando significato alla nostra esistenza e mettendo cura nel modo con il quale la conduciamo.
Dal luogo di prigionia per antonomasia, il luogo pensato e costruito per distruggere l’umanità nell’uomo (quella dei prigionieri come quella dei loro carnefici) il canto di Ulisse suona come il canto di un uomo libero, come il canto di tutti gli uomini liberi. Il canto di coloro che non si rassegnano a vivere nell’inferno quotidiano, di coloro che pensano che le cose possono essere diverse e migliori, che non hanno paura di battersi per realizzarle. E Ulisse ci esorta al viaggio, ad attraversare le colonne d’Ercole, ad osare anche là dove sembra che nessun altro abbia mai osato, ad andare verso il mare aperto.
Non possiamo che partire da qui: da Auschwitz, che non è solo il luogo dove sono avvenute atrocità sconvolgenti, ma è anche il simbolo di tutti gli altri luoghi dove l’uomo è stato (e viene) torturato, umiliato, annichilito. E partire da Ulisse, sogno di due prigionieri certo, ma anche simbolo di chi vuole andare oltre, di chi non cessa mai di porsi domande, di chi vuol conoscere, provare, scoprire il mondo, gli uomini e anche se stesso.
La lotta tra Auschwitz e Ulisse, tra la barbarie e l’umanità la ritroviamo ancora oggi, nelle cronache dei quotidiani, nei luoghi dove ci impegniamo, a volte anche dentro di noi. E’ necessario partire, mettersi in cammino, prendere il largo, gonfiare le vele di un vento che ci sospinga verso nuove frontiere.
Ecco perché Ulisse è il simbolo, il modello, il prototipo dei rover e delle scolte. Ce lo indica un povero uomo, con la casacca a strisce e un numero tatuato sul braccio mentre porta il rancio ai suoi compagni. Ulisse è la possibilità di vivere con dei criteri diversi. Il roverismo scoltismo è una strada di libertà. Una strada rischiosa, ardua, non necessariamente la strada dei vincenti ma una strada che merita di essere percorsa da chi non si rassegna a essere parte di un gregge (o di un branco di maiali, per citare Circe e i suoi incantesimi).